IL PRETORE Ha pronunciato la seguente ordinanza nella causa civile n. 7316/89, promossa dacanti a questo pretore da Chirico Antonio contro Caniglia Pietro e la S.p.a. Phenix Soleil per ottenere il risarcimento del danno conseguente a sinistro stradale del 25 gennaio 1988, sono stati ascoltati, all'udienza istruttoria del 9 febbraio 1990, due testi sulle cui testimonianze e' sorto il fondato sospetto di falsita'. In forza dell'art. 256 del c.p.c., questo giudice, oltre ad essere tenuto alla denuncia al p.m., poteva anche ordinare l'arresto dei due testimoni, ma ha ritenuto di sollevare questione incidentale di incostituzionalita', per contrasto con gli artt. 3 e 97 della Costituzione, della citata norma che consente al giudice istruttore e quindi al pretore in forza dell'art. 311 del c.p.c. - di ordinare l'arresto, in udienza, del teste, sulla cui testimonianza e' sorto il fondato sospetto di falsita' o di reticenza. Come gia' sottolineato in sentenza di questa Corte costituzionale 10 ottobre 1979, n. 117, esiste una stretta interconnessione, nel processo civile e nel processo penale, dei doveri morali e giuridici del teste a dire la verita', pertanto appare conseguenziale che un cittadino, chiamato a testimoniare nell'uno o nell'altro processo, debba godere delle stesse garanzie, quando rende la sua testimonianza. Con l'entrata in vigore del nuovo c.p.p. (artt. 207, 475 e 500 nuovo c.p.p.) e' stata cancellata, dal codice di rito, la norma che consentiva al giudice, di fare arrestare il teste sospettato del reato, di cui all'art. 372 del c.p. Questa norma, nella vigenza degli artt. 359 e 458 del c.p.p. del 1930, piu' che sostanziarsi in una ragionevole regola procedurale, si era, spesso, risolta in un modo di compulsare il teste per ottenere la ritrattazione o dichiarazioni corrispondenti al convincimento del giudice. Il legislatore postcostituzionale, con il nuovo codice di procedura penale, al fine di evitare i sempre possibili dubbi interpretativi; ha ribadito espressamente, nell'art. 476, secondo comma, l'insussistenza del potere, da pare dell'autorita' giudiziaria, di arrestare il teste in udienza. Osserva questo giudicante che un cittadino, chiamato a testimoniare, svolge un munus pubblicistico, da considerarsi di identico valore morale civile e giuridico nel processo civile e nel processo penale, per cui appare irragionevole mantenere, nell'art. 256 del c.p.c., la norma, retaggio di antiche legislazioni, di consentire al giudice l'ordine di arresto in udienza del teste, sospettato di testimonianze false o reticenti, se non in dispregio dell'art. 3 della Costituzione, quando ormai tale forma repressiva non e' piu' ammessa nel processo penale e non e' compatibile nemmeno con l'arresto in flagranza (art. 381 del nuovo c.p.p. e 372 del c.p.). Secondo quanto ha statuito questa Corte costituzionale (sent. 7 maggio 1982, n. 86, sentenza 19 gennaio 1989, n. 18) l'art. 97 della Costituzione, nello stabilire che i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge in modo che sia assicurato il buon andamento e l'imparzialita' dell'amministrazione, non ha inteso riferirsi ai soli organi della pubblica amministrazione in senso stretto, ma anche agli organi dell'amministrazione della giustizia. Orbene, secondo il giudice a quo, l'ordine di arresto, in udienza del testimone sospettato di falsita', si rileva essere solo una forma di intimidazione del teste e non pare rispondere ne' al principio del buon andamento del processo ne' all'imparzialita' del giudice che sta conducendo il processo. Infatti l'arresto del testimone in udienza appare essere un corpo estraneo al processo che si sta conducendo, dal momento che il giudice, nel processo civile, non ha l'obbligo di ritenere attendibile il teste che abbia ottenuto sentenza di proscioglimento (Cassazione 6 giugno 1981, n. 3674, Cassazione 27 marzo 1979, n. 1797). Ordinare, ancora oggi, in forza dell'art. 256 del c.p.p. l'arresto del teste in udienza, e' solo un elemento ad colorandum del processo, che, sul semplice sospetto, limita la liberta' personale e che non serve al processo, perche' il teste puo' essere sempre dichiarato inattendibile in sentenza e, se colpevole, condannato nella sede competente. Sulla rilevanza della questione che si sottopone in via incidentale a questo Corte, il giudice a quo non puo' che ripetere le stesse considerazioni di questa Corte di sentenza 19 gennaio 1989, n. 18 (in Foro it. 89, I, 305). "L'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, stabilendo che la questione di costituzionalita' proposta debba essere tale che il giudizio non possa essere definito, indipendentemente dalla risoluzione di essa, implica, di regola, che la rilevanza sia strettamente correlata all'applicabilita' della norma impugnata nel giudizio a quo. Tuttavia, come questa Corte ha gia' esplicitamente ritenuto in altre occasioni (cfr. Corte costituzionale 24 novembre 1982, n. 196; 4 luglio 1977, n. 125; 15 maggio 1974, n. 128) debbono ritenersi influenti sul giudizio anche le norme che, pur non essendo direttamente applicabili nel giudizio a quo, attengono allo status del giudice, alla sua composizione, nonche' in generale alle garanzie ed ai doveri che riguardano il suo operare. L'eventuale incostituzionalita' di tali norme e' destinata ad influire su ciascun processo pendente davanti al giudice del quale regolano lo status, la composizione, le garanzie ed i doveri: in sintesi, la protezione dell'esercizio della funzione nella quale i doveri si accompagnano ai diritti. Ritiene questo giudice a quo che non si possa negare che ordinare l'arresto del teste in udienza attenga alle garanzie ed ai doveri che riguardano il suo operare.